lunedì 16 dicembre 2013

Il sale di Romolo - Parte Terza

L’INSEGUITO DALLA FAMA

“Appena avranno smesso di darti fastidio le mosche, sarai arrivato” gli aveva detto l’ultimo bifolco Sabino all’ennesima curva che saliva nel bosco via via meno folto.
Non era stato facile trovare il podere dei Pomponii, e non che non glielo avessero voluto indicare, i bravi contadini Sabini che aveva interpellato dopo essersi alzato fin troppo tardi quella mattina, aver sbocconcellato una lucanica secca e salatissima e qualche boccon di pane e risciacquato la bocca con un sorso che pensava di posca, ma che invece si rivelò del vino che Vipsio si era portato dalla fonte sulfurea, probabilmente allungato con quell’acqua.
Era il classico scherzo da sacerdote che avrebbe potuto fare un… Romano, aveva pensato Ostio sogghignando fra sé, e ripetendoselo rassegnato quando, adempiuto agli adeguati stimoli, il vino e la salsiccia gli fecero venir sete.
“Acqua di fonte, Romano! Noi ci abbeveriamo alle fonti della terra o straniero delle generose terre Sabine! – gli aveva riso in faccia il primo pastore cui aveva chiesto da bere, e indicazioni per il campo di Numa mentre i suoi cani l’annusavano sottomessi ma sospettosi – Laggiù! E il campo di Numa sta lassù, oltre ai sentieri delle tombe!” indicando alternativamente il fondo della valle e la costa di una più stretta che vi confluiva poco distante.
Poi le indicazioni erano state quelle dei bifolchi che conoscono perfettamente la propria terra ma non la sanno descrivere: da quella parte, c’è una quercia più grande… una macchia di tigli… una rupe a forma di muso di tasso, una tomba scolpita così, vedi… sali il ruscello e dopo cento passi guadalo, il terzo bivio, segui il suonar dei picchi… c’era voluto quasi tutto il giorno per avere la certezza che quell’uomo dalla lunga barba più bianca che grigia che lo faceva apparir quasi vecchio, che guidava un aratro dietro a una coppia di buoi grigi in un podere a lieve pendenza nel mezzo di una leggera boscaglia, fosse effettivamente Numa Pompilio nel mezzo del cammin della sua vita, oltre che del suo campo.
E non c’erano quasi mosche.

“Benvenuto sui miei campi, Ostio Ostilio. Ti aspettavo. E pure da tempo. Solo non sapevo che saresti stato tu: la tua fama ti ha preceduto di poco” disse Numa appoggiandosi al manico dell’aratro, guardandolo avanzare circospetto in mezzo alle stoppie.
Tullio storse la bocca in un ghigno rassegnato.
“E chi volevi, Proculo Julo con le sue farneticazioni? Qualcuno come molti altri con la mente persa dietro alle Ninfe della Palus Canapia da parecchi anni? – rispose riconoscendo nell’uomo curiose somiglianze col ragazzetto che gli elencava i sacrari degli Argei trent’anni prima – Ma forse proprio per questo le sue parole che immagino ben conosci son state davvero ispirate dagli Dei: mi aspetto quindi che arrivi qui anche Proculo Julo prima o poi, e non da solo.”
Numa fece un mezzo sorriso, poi indicò una grande quercia al limite del campo arato ormai per metà, e l’altra ancora stopposa pattugliata da una dozzina di oche.
Un paio di jugeri, giudicò ad occhio Ostio, forse tre, di terra grassa ma sassosa. Un bel campo ma duro da lavorare, concimato saggiamente con letame maturo (da cui le poche mosche, che c’era chi fra i Latini bagnava di piscione la terra davanti all’aratro per ammorbidirla, e allora i nugoli…), dai bordi puliti come il bosco ceduo che lo circondava, ricco di cespugli di asparago, ben curati roveti di more, olmi e alberi da frutto scalati da viti a intervalli ben regolati cui pendevano grappoli ormai dorati e pomi ancora verdi. A monte, verso la nascosta rupe di Cures, era roccioso, e il tronco dritto e slanciato dei pioppi e fortemente potato delle querce rivelava come le matricine venissero attentamente accudite nella loro crescita per garantire il giusto legname al momento opportuno; a valle s’ammorbidiva come la pendenza, invitando a un eventuale allargamento del campo fino all’orto vicino al ruscello in fondo alla valle, se la Gens Pomponia avesse aggiunto altre braccia ma altre esigenze non le avessero allontanate, alzandosi poi ripido a imbuto grigio di olivi fino ai confini bruni del bosco che s’inerpicavano nell’azzurro ormai stinto.
E dalle pietre che facevano da sedili sotto la grande quercia frinente che dominava il campo, sola nel coro della conca grigioverde e perciò dominante rispetto i suoi scuri confratelli che coprivano i cocuzzoli, si guardava spontaneamente verso il suo sbocco verso la valle del Tevere, dritto verso Roma, l’Isola Tiberina verde come una mandorla in un giallo gomito storto.
“Manca ancora molto al tramonto – disse Numa asciugandosi il sudore con uno straccio di canapa – ma infine volevo arrivare solo alla spalla del fossetto e molto non manca ancora per arrivare a quella: abbiamo approfittato bene della pioggia della scorsa notte, io e i miei figli. Le prime zucche sono ancora da cogliere, ma i piccoli poponi sono già zuccherini, te li farò assaggiare. Poi dovrei andare nell’oliveto, dall’altra parte della valle, che i miei ragazzi stanno raccogliendo le olive immature scrollate dallo stesso temporale. Là è esposto a sud, ed è più protetto dai venti gelidi iperborei, ma per la grandine c’è solo da invocare con i giusti termini la giusta divinità, cosa che io ieri non ho evidentemente saputo fare… con la giusta loquacità avuta per gli Dei di questa parte!”
Forse non quella giusta, pensò Ostio considerando i venti passi che mancavano ancora al solco per arrivare parallelo agli altri al fosso di capezzagna del campo, ma doveva averne senza dubbio messa tanta, più che per fermare il placido bue.
“La tua loquacità con gli Dei è proverbiale qui e quindi in tutta la Sabina, e ben nota anche a Roma – rispose senza trattenere una nota d’ironia – È con gli uomini che non ti esprimi, né ti vuoi più esprimere giustamente…”
Numa appoggiò la schiena alla quercia e s’attaccò a gorguzzolo all’otre di pecora con la sua acqua, poi lo passò a Ostio lasciando cader le braccia, le gocce scivolanti sulla lunga barba sporca di terra e sudore e lo sguardo volto all’ansa dei colli di Roma.
“Avete accelerato i tempi” disse, atono.
“Non ci sarebbe stata occasione più ideale in chissà quanto tempo. – rispose fermo Ostio – E da fin troppo tempo. Ne stava preparando una grossa davvero, per cui non son pronti i tempi, ammesso che lui fosse ancora l’uomo che non era più…”
“Una guerra? Più grossa delle altre? Romolo voleva rompere il patto secolare? Voleva finalmente la dimicatio ultima di Veio?” si scosse sarcastico Numa.
“Naturalmente, a suo tempo. E creare una flotta. E riconsacrare Lavinium. E riprendersi pure Alba Longa, per crearvi un santuario a Remo.”
A questo punto Numa lo fissava con la schiena ben ritta, distante un palmo dalla corteccia della quercia.
“E il sepolcro di Tito Tazio che fine avrebbe dovuto fare allora? E Remo chi l’avrebbe divinificato, ammesso si possa deificare per un qualche motivo?”
“Appunto, Numa Pompilio. Tu.”
“CHI!?”
“E chi altri? Il Rex Nemorensis?”
Numa scrollò la testa sorridendo enigmaticamente, come chi trovi un incastro in un intrico e non voglia compiacersene troppo.
“Questo dunque era il significato di quelle confuse interpellanze che mi mandava sull’incidenza del fratricidio nella Legislatura della Koiné. Che Romolo s’interessasse delle Leggi degli altri per forgiare le proprie era abbastanza incoraggiante, ma legarlo alla mitologia dei fratelli omicidi alquanto complesso… comunque poco elegante da parte sua. Però se debbo interpretare la tua domanda come un’affermazione, Romolo senza questa soluzione avrebbe potuto cercare risposta e soluzione al Santuario di Diana Nemorensis…”
“Una Lega Latina e Italica volta a conquistare Cuma. Se voi Sabini ci foste voluti stare, bene. Altrimenti gli Etruschi. Altrimenti pazienza, da soli.”
“Sì, avete fatto bene a fermarlo ora.”

Man mano che il sole scendeva nell’incavo della piccola valle facendo scintillare il Tevere e il lontano mare confuso nell’orizzonte, Numa e Ostio continuarono a immergersi nelle schermaglie linguistiche, semantiche, logiche che li univano e separavano come onde sul bagnasciuga.
Erano – e forse la loro sensibilità legata a tradizioni millenarie gliene rendeva pure merito – nel punto d’incontro dove la Storia presentava una biforcazione: Roma doveva guardare a sud, alla Magna Grecia, o a nord, ai Popoli Italici, posto che alle spalle aveva sempre gli Etruschi, e non solo quelli di Veio?
Ma la domanda, se mai posta, sarebbe stata malposta: Roma era un vortice inevitabile, era ciò che stava attorno a lei a dover temere – o sperare – di esserne prima o poi attratto, e questo fin da prima di Romolo.
Perché quel punto sul Tevere era da generazioni l’intersezione fra tanti flussi di interessi non solo sul sale tirreno in concorrenza a quello adriatico, passaggio di mandrie e di greggi, di carri e di barche, di persone e di pensieri, di merci, commerci e operazioni che andavano sempre più organizzate, qualsiasi motivo ci fosse perché le cose dovessero muoversi invece di stare ognuna ferma al proprio posto, come ogni Dio volesse.
Ma questo non lo facevano nemmeno le stelle che traspondevano il volere degli Dei… ed era proprio studiando e verificando il loro lento muoversi che c’era chi riusciva a meditare su tutto ciò.
Interrogare gli Dei non significava solo saper interpretare correttamente quegli ancestrali simboli delle variazioni climatiche attraverso – anche – il volo degli uccelli da dove a dove quando e perché secondo condizioni cosmiche strettamente variabili, ma soprattutto come trasferire le corrette interpretazioni a tutti quelli che avevano a che fare con quel complesso incrocio in una lingua comune, anche simbolica: una koiné che sapesse interferire con tutti quelli che cercavano in quei Mani lì immanenti riferimenti ai propri Numi abituali.
E interrogare tutti i Numi su come orientarsi nel governare quel che era il varco sul Tevere da quando Saturno, Ercole o chi per loro ci aveva messo piede la prima volta, sorgeva insomma spontaneo nella mente sia di Numa che di Ostio, ma mentre Ostio considerava pragmaticamente a spese di chi farlo, Numa era considerato qualcuno a cui chiedere come farlo, fosse un ponte, una casa ortogonale, una religione o l’organizzazione di qualsiasi altra cosa.
Un popolo, magari.
E Ostio era lì per quello, per indurlo a farlo, per Ercole e per Roma!

“Mamerco! Io e il mio amico passiamo questa notte in città – gridò Numa al figlio minore che saliva dall’orto ormai nell’ombra – Sarò di nuovo qui quando il sole toccherà il terzo terminus di ponente. Sapete cosa dovete fare coi poponi immaturi.”
Prese il cesto di legumi che il ragazzo gli porgeva, indicò a Ostio il sentiero fra le rocce chiazzate di licheni, poi aggiunse, accennando alla capanna dallo spigolo curiosamente rigorosamente ortogonale, come si diceva fossero le celle dei templi Greci ed Etruschi, celata da una pergola di cespugli di rose e sarmenti di vite rampicanti su un vecchio fico e un antico ulivo: “E non esagerate. Sapete cosa dovete fare, ma qualunque cosa facciate in mia assenza, non esagerate.”
Decisamente, pensò Ostio, era un comando sobrio da dare a chiunque, non solo alla propria prole.
La strada per la città, come del resto il Romano immaginava, non fu né lunga né aspera se accompagnato da Numa e dai suoi cani cirenei (dono, si mormorava, degli Spartani di Tarentum), fino alla cima gibbosa che si prolungava in tre cocuzzoli diretti verso il Tevere e la Tuscia come nocche di un artiglio verso gli ultimi bagliori del tramonto, dove le capanne si rifugiavano fra gli alberi ben potati per garantir più ombra di giorno che frutti sul desco, e alcune melodie di flauti s’intrecciavano nell’aria ormai fresca.
“Pater! – li accolse sulla soglia della capanna più ampia e più in alto, subito sotto al muro dell’Ara di Quirino Maius,  una ragazzina appena pubere in tono di tedioso rimprovero – Era tempo che rimettessi piede in questa casa! I Sabini vogliono sempre una decisione da te! A filare non si parla d’altro...”
“Lo so, Pompilia, lo so, non petulare come al solito gli stessi argomenti… i nostri campi ora vogliono me, lo sai anche tu. – rispose con un sospiro Numa consegnandole il cesto colmo di baccelli di cicerchie e lupini da cui spuntava qualche smunta zucchina – Fai piuttosto allestire un giaciglio per il nostro ospite che viene da Roma, e portar porri e olive e formaggio e puls farrata nel patio pergolato.”
Alla luce della lucerna appesa a fianco dell’uscio, Ostio potè intuire uno sguardo di diffidenza e istintiva antipatia, e con un infantile eppur femminile scrollar di spalle la figuretta velata sparì reggendo sussiegosa il cesto all’interno della grande capanna perfettamente ovale, interamente circondata da un portico largo un paio di passi.
“Vogliono te anche d’inverno i campi, Pater! Ma i tuoi diritti non li avanzi!” non si trattenne comunque dall’ammonire nell’ombra tagliata dai raggi del focolare penetrale.
“Questa è la casa dei Titii – spiegò Numa in tono rassegnato aggirando la capanna dalla parte opposta all’Ara, e conducendo Ostio sotto al portico sostenuto da colonnine di legno scolpite a intagli geometrici, fin dove cominciava il pergolato di vite i cui grappoli eran appena stati colti per far bollir la salsa dell’agresto, come testimoniava l’aroma diffuso dal focolare acceso in uno dei meandri della capanna – I Curiti la considerano una sorta di Regia perché il Re Sabino di  Cures sposa sempre una discendente femminile dei Titii. Io in effetti la considero casa di mia figlia.”
“Vedo” rispose asciutto Ostio, affilando lo sguardo nel buio ormai denso in cui cominciavano a frinire i primi grilli.
Improvvisamente, due luci giallastre illuminarono sotto al pergolato un basso tavolino con un’orcio d’acqua di fianco a due larghe sedie sannitiche di vimini, con schienale e braccioli di olivo levigato.
Pompilia e un’altra donna più anziana vi deposero alcune scodelle e un’anfora di fattura tarentina, mentre un fanciullo più o meno coetaneo della principessa Sabina reggeva due lucerne.
“Siedi. E sorbisci la puls intanto che è ancora calda” invitò Numa indicando a Ostio il desco e una delle sedie, e alla figlia con un’occhiata la porta della capanna.
Con lo sguardo alteramente corrucciato la ragazzina volse le spalle con uno squillante “Vieni Priscilla!”, la vecchia salutò con un gesto del capo e il giovane le seguì con un mezzo inchino dopo aver lasciato una lucerna al centro del tavolino, fra i piatti di porro, olive e formaggio fermentato spaccato in minuscoli pezzi.
Lo strano sapore della liquida polentina distrasse Ostio dai pensieri che l’avevano accompagnato lungo la salita: non era solo il caratteristico tostato delle puls farrate sabine – anche la sua prima moglie la faceva con quelle farine di semi arrostiti – né il condimento acido di formaggio misto di pecora, capra e vacca, che lo conosceva per tanti pasti condivisi con militi Sabini al seguito delle guerre di Romolo. Il sale era giusto, non eccessivo come nei piatti di chi a Roma voleva manifestar la propria ricchezza. Mancava qualcosa piuttosto, come di spessore per quanto fosse piacevolmente speziata di fresche erbe aromatiche che si potevano trovare solo su quei monti… poi istintivamente comprese: Numa era vegetariano, la puls era fatta senza brodo, di ossa o di carne, secca o fresca che fosse.
“Vedi se ti conviene berla piuttosto che usare il cucchiaio – disse Numa come se ne avesse intuito i pensieri – la faccio far così liquida col farro ben tostato e finemente macinato perché è rinfrescante, oltre che rinfrancante per via del formaggio ben stagionato. Sostituisce il brodo forte che apre lo stomaco dei contadini carnivori” concluse in tono che, nell’ombra, sottintendeva a un sorriso ironico.
“Ogni cosa ha il suo pregio quando si ha fame” concordò neutro Ostio.
“Questa è la saggezza che mi aspetto da un Romano!”
Il Romano stava per ribattere acidamente, quando lo distolse un guaito ai suoi piedi.
“Falla pur finire a lui: è l’ultimo a mangiare e il primo a lavar le stoviglie…” sogghignò Numa abbassando la sua ciotola rotonda al livello del muso del cucciolo.
“Non mi stupisce non ce ne sian altri: i cani sono carnivori… come noi.”
“Come voi Romani, intendi?”
“Come chiunque, potendo. Tranne tu, che io sappia.”
“Tu non sai tutto, Romano!”
Ostio sogghignò.
“Infatti è per questo che son qui. E non perché mi illudessi che sapessi tutto tu. Ma ora una cosa la voglio sapere, perché penso sia mio diritto.”
Numa sospirò.
“Parla.”
“Da quanto sapevi della morte di Romolo?”
“Da subito, o quasi: passati forse tre giorni.”
“Qualcuno di noi te l’ha fatto sapere, quindi.”
“O qualcuno vi ha visto: nomi non ne avrai da me. In tanti han visto Romolo scomparire in quella nuvola ai bordi del lacus caprinus, e tutti davvero credono che sia stato asportato dagli Dei, e aspettano di sapere quali…”
“Quasi tutti…”
“Chiunque dovesse sapere la realtà, ormai la sa. O la immagina, è lo stesso. Tutti vedevamo che Romolo ormai aveva esaurito la sua forza propulsiva, tutti respiravamo meglio per questo, ma la pace che regna da quasi vent’anni è artificiale: Romolo non era un uomo capace di pace…”
“Né da pace infatti… Rissoso, magnifico duce in battaglia, grande motivatore, affabulatore quanto nessun altro… ma l’ultima guerra con i Veienti non ha portato solo le saline e i Septem Pagi del Gianicolo, ci dissanguò pure, entrambi: quella dei cent’anni non è una Pace, ma una tregua… tecnica.
E aldilà di un carisma devastante quanto la sua sagacia tattica, non c’è mai stato nulla gran che in più, in Romolo. Non puoi condurre tutto un popolo come fosse sempre in guerra, confrontarti con gli altri popoli come se tu stesso fossi il loro Re, e quel calendario… che pasticcio!”
“Va un po’ sistemato, sì…” riconobbe Numa, che l’aveva, per quanto potuto, ispirato.
“Remo era diverso, più riflessivo e meno impetuoso, forse più strategico… ma non lo sapremo mai se Remoria sarebbe stata migliore, a meno di non visitare gli inferi” si lasciò andare Ostio.
“Siamo tutti destinati là, a meno di non venir deificati… Davvero Romolo avrebbe voluto far consacrare un santuario a Remo sui colli Albani?”
Ostio si versò quel che pensava vino dall’anfora in una coppa, ma scoprì che era posca, più aceto che acqua.
Scherzo da sacerdote pensò, ma da sacerdote Sabino, non Romano…
“Aveva cominciato ad esser tormentato dallo spettro del fratello già da qualche stagione, parecchie stagioni: dall’inverno successivo alla vittoria dei Septem Pagi in effetti… c’era chi sobillava il passato dicendo che avrebbe dovuto inumare Remo nel Mundus sul Palatino invece che nell’Auguraculum sull’Aventino, interdicendo la costruzione di abitazioni su quel colle che fa buon controllo sul Tevere, fra l’altro. Per cui altri suggerivano che quindi doveva riconsacrare tutto anche come fusione con gli ormai estinti Lemuri di Evandro, i cui ultimi superstiti trovammo lì quando esplorammo per la prima volta quel colle fessurato.”
“I Lemuri di Evandro! Mi son sempre rammaricato di non… gli chiedeste se veramente il Mundus originario di Evandro fosse sul Campidoglio e poi trasferito sul Palatino su pressione di Saturno?” chiese Numa, ferino di curiosità.
Ostio lo guardò con la severità autorizzata dai suoi venti inverni più dell’Inseguito dalla Fama, come a Roma alcuni Sabini, rammaricandosi della sua pusillanimità, chiamavano Numa.
“Sapevano appena parlare una lingua arcaica, con poche parole riconoscibili. Saran stati una dozzina, a meno non ce ne fossero altri morti poi nelle loro grotte che nessuno ha ancora esplorato.”
“E come sapete che fossero proprio discendenti di Evandro e Pallante e non ultimi Aborigeni?”
“Perché ancora veneravano, a modo loro, il Mundus di Evandro. Che per disposizione di Romolo, alla morte dell’ultimo di quei disgraziati è stato coperto e nascosto.”
Numa assentì lentamente.
“Continua.”
“Aveva mandato anche a interpellare l’oracolo Sibillino dei Campi Flegrei. Profezia di sciagura naturalmente. Se, nell’interpretazione di alcuni, non avesse lasciato tutto così senza osare aprir altre guerre, per altri se non avesse esumato le ossa di Remo per inumarle nel Mundus originario di Evandro, per altri ancora pure quelle di Tito Tazio, per altri ancora entrambi in cima al Gianicolo per garantire l’eternità dei Septem Pagi, per altri ancora sul Quirinale o sull’Esquilino per…”
“Immagino. – tagliò corto Numa, mugugnando e sputando un nocciolo di oliva – E immagino pure arrivassero anche una quantità di omaggi e doni e inviti dalla nuova città Greca che ormai ospita la Sibilla. E la controlla…”
“Bella roba! – annuì Ostio illuminandosi – Originale focese. Ben sostenuti dalla madrepatria, ci sono andato qualche anno fa… comunque – continuò tornando serio con un pelo d’imbarazzo – convocò e interpellò anche gli Aruspici Tusci. I migliori, di Volsinii. Son stati mesi in giro sui colli a compulsare le are degli Argei e ogni altro punto consacrato del Septimontium, infine han stabilito che il Mundus originario di Saturno è sul Campidoglio. Ma si son divisi se sia sul Capitolium o sull’Arx…”
“Oh! Numi…!”
“Però pare concordassero esserci un Mundus di Ercole nell’Asylum, per quanto non risulti abbia mai inteso voler fondare una città di vaccari… Romolo li cacciò, perlomeno loro. Ma lasciarono una quantità di assistenti fra quelli che li avevano raggiunti, diciamo che a Roma non si fa fatica a trovare un’aruspicina Tuscia in caso di necessità…”
“In più di un senso e a prezzi ragionevoli, suppongo.”
“Naturalmente… Però intanto da Alba arrivavano fervidi consigli sul come fosse possibile l’affrontare il Rex Nemorensis e inaugurare un nuovo culto omicida-fratricida erculeo, base di una nuova Lega Latino-Italica…”
“Nientemeno!”
“Capisci come questa prospettiva potesse allettarlo?”
Numa annuì. Sempre più le schermaglie di provocazioni per interposta persona degli anni precedenti, e anche gli ultimi confusi approcci personali, prendevano contorni sia previsti che imprevedibili.
Romolo voleva fondere Latini e Sabini IN Roma. Aveva la sua logica: anche se Numa non era convinto di condividerla e i suoi compatrioti la detestavano decisamente, la comprendeva e la trovava in un certo senso inevitabile. Ma non come, e se dunque l’idea di Romolo era stata di fondere a forza Latini e Sabini, e per farlo era disposto a scatenare guerra a chiunque, Greci, Ernici, Etruschi, Equi, Sanniti… oppure fra sé stessi se necessario… era plausibile.
“Ma il fatto è che Roma non è Latina! – concluse però Ostio, scuotendolo da vecchi e nuovi pensieri – Non lo sarebbe stata nemmeno se Remo l’avesse fondata come Remoria sull’Aventino: Roma è quella federazione di persone che sostituisce quella federazione di popoli che i nostri padri non son riusciti a fare per generazioni!”
“Questo non solo è giusto! – esclamò Numa battendo una mano sul bracciolo di vimini – Questo è MOLTO giusto!”
“E in gran parte i Romani sono Sabini. Vecchi Sabini infiltrati o giovani figli di Sabini e Sabine, e non tiriam fuori ancora la baggianata del Ratto…”
“So tutto, se mi è stato raccontato il vero – ridacchiò Numa, grato di poter glissare sull’anzianità dei Sabini – non m’interessa.”
“Ti interessa invece il fatto che del resto ben conosci, come cioè tutto quello spargimento di sangue fu fatto per tener libero il Campidoglio dai Romani, come da tutti gli altri fin da quando il prozio di Tito Tazio aveva stabilito la ridotta sul Quirinale, perché sede delle dispute ereditarie in Gentes dalle ascendenze miste. Poi si accordarono per mantenerlo zona neutrale di Auspicio e Aruspicina perché i Tusci di Veio non aspettavano altro che uno scontro definitivo fra noi per occupare l’Arx e tutto il Capitolium, bastava meno di un’altra Tarpea ad aprirgli la strada, infine gli esperti in queste cose son loro...
Ma dopo la morte di Tito - e per una vendetta legata a un’ingiustizia ereditaria, io glielo dissi a tempo che le questioni di Giustizia non erano né per lui né per Romolo e di lasciar fare agli Etruschi, come poi Romolo fece - l’equilibrio si mantiene per volere di non so quali Dei senza l’assenso ultimo di Romolo!”
“Ero bambino al tempo, anche se poi ho studiato i fatti: Tito aveva ragione.”
“Hai viaggiato fino a Lavinium? Ognuno dei superstiti o il suo erede di ogni parte ti avrà raccontato la propria versione, i propri fatti. Gli Atti li conoscono solo gli scriba dell’Arce Capitolina, se li hanno ancora, in qualche archivio di Veio probabilmente.”
“Che sono Etruschi – colse finalmente il punto Numa – Tu mi stai dicendo che l’archiviazione di ogni atto giuridico compiuto in Roma viene curata da scriba Etruschi?”
“E chi altri?”
“E in che lingua?”
“Bella domanda.”
Il silenzio che li colse fu istantaneo, come un vuoto pneumatico avesse risucchiato la loro consapevolezza in quell’universo infinito in cui erano racchiusi gli Dei coperti dal manto stellato, che improvvisamente pareva sbucare da ogni dove in una sfrondata di vento che scosse il pergolato.
“Interessante questione…” borbottò Numa, improvvisamente spiazzato.
“Riguardante il passato e probabilmente importante in futuro – incalzò Ostio – al momento meno importante del saper a chi dedicare la nuova fonte drenata sotto all’Arce, poco più sopra del Volcanal. Le decisioni di Romolo erano draconiane, nessuna assemblea potrà mai governare così, questo è il problema adesso. Ci vuole un Re. Non come Romolo, ma ci vuole un Re.
Romolo è stato un Re Latino, autoritario ma fortunatamente baciato dall’autorevolezza, che non è facile da trovare tanto quanto la misura nell’autorità. I Sabini hanno altre tradizioni riguardo alla monarchia, forse ora più adatte a far crescere Roma… o deve comunque un Re Sabino cominciare ad occuparsi dei tanti giovani Sabini che scappano dai campi e vengono ad arruolarsi nelle Curie di Romolo…”
“Ma ora che Romolo è morto…”
“Appunto: che opportunità avranno tutti quelli che si stanno dirigendo verso Roma convinti che Romolo gli darà delle opportunità… di vita almeno, se non di ricchezza? Ieri sera a quest’ora ero in una grotta a raccontare a dei giovani uomini come al tempo Romolo e Remo ed io e pochi altri della loro età eravamo come loro stessi adesso, solo che aggredivamo chi sapevamo aver aggredito per primo. Proteggevamo gli anziani, le donne, i bambini, colpivamo i prepotenti, risarcivamo i derelitti con i proventi delle nostre scorrerie. Perché questo ci piaceva! Ci faceva sentir forti assoggettar i forti, non colpir i deboli! Oltre che esser giusto e approvato dagli Dei.
E ci piaceva irridere i superbi, come Amulio. E quando Remo venne preso prigioniero dai militi di Alba e ci fu proposto di punire Amulio e di liberare non solo Remo, ma anche Numitore…”

La sua voce si spense pian piano, e seguì un profondo silenzio, solo ritmato dal frinir dei grilli e dal grido di qualche assiolo, e un’upupa lontana che pareva voler rispondere a una civetta inquieta.
Torpido ma vigile, Numa rievocò i rari incontri con Romolo, che aveva fondato Roma l’anno della sua nascita (lo stesso giorno, affermava sua madre e aveva confermato Tito Tazio fidanzandolo infante alla coetanea Tazia; ma lui era certo di esser nato l’inverno precedente): un omaccio atticciato, biondissimo la prima volta che l’aveva visto, bianco, stempiato e smunto l’ultima, giusto l’anno prima.
Indubbiamente Romolo aveva dominato con esuberanza ogni situazione pubblica in cui si fosse trovato nella sua vita, da lontano schierato sul campo di battaglia o da vicino in un corteo trionfale, sfolgorante di armi e armatura con l’elmo troiano dal vasto pennacchio come in tunica quando conduceva in esercitazione i suoi uomini, o così goffamente avvolto in una stola gabina come quando conviviava sul Palatino con gli ambasciatori Ernici, Rutuli, Volsci, Osci, Capenati, Gabini, Ardeatini, Campani, Punici, Greci, Etruschi, perfino Egizi e via e via chiunque avesse interessi su quel guado sul Tevere che lui ormai controllava.
Ma quello che aveva incontrato nel Volcanal l’ultima volta che era sceso a Roma era un uomo consumato dall’interno, più che dalla vita attraversata, con una simpatia forzata solo imitazione di quella empatica di un tempo, un uomo che cercava di sopravvivere a se stesso e alla sua gloria e alle sue forze svanenti.
“E Remo, che tipo era…” cominciò lentamente a chiedere, ma Ostio si svegliò d’improvviso, sobbalzando come colto da un lampo.
“Proculo Julo! Ecco cosa ha visto Proculo Julo!”
“Ha visto qualcosa, sì. – borbottò lesto Numa, che nel dormiveglia non aveva mai perso il filo con cui le Parche tendono gli avvenimenti umani prima di tagliarli – Ma non fu lui a riferirmi il fatto preciso, fu un messo di uno dei tuoi compari. Non importa quale. Però quel che ha visto Proculo, al di là delle sue consuetudinarie visioni, non mi è certo chiaro…”
Ostio si ritrovò improvvisamente completamente sveglio al cospetto delle stelle scintillanti fra le foglie del pregolato.
“Procul meius proculus fuisset… ci ha visto metterlo sotto sale.”



IL SALE DI ROMOLO

La prima domanda che venne in mente a un uomo pratico come Numa, fu quanto sale ci volesse per mettere in salamoia un omaccio qual era Romolo. La seconda, da uomo pio che era, fu di interpretare il perché, a modo suo.
“Dopo che l’avete ucciso…”
Ostio lo guardò malissimo, o almeno l’ombra mobile che poteva intuire nell’etereo delle stelle che brillavano fra le foglie.
“No, certo, prima…”
Cogliendo il suo tono ironico, Numa decise di giocar sporco, pur di conservare il vantaggio dialettico.
“Son stati presi Auspici, in seguito al suo ingresso nel Volcanal, il giorno che lo faceste?”
Tullio tentennò, sorpreso dalla situazione: era questo che doveva aspettarsi da Numa Pompilio, l’Inseguito dalla Fama, l’uomo a cui stava implicitamente offrendo il trono di Roma, di fronte alla rivelazione dell’aver messo Romolo sotto sale?
“Svariati. Disordinati, anche come interpretazioni” rispose comunque.
“E Romolo? L’avete ucciso lì?”
Ostio sospirò pesantemente.
“No. La tentazione era forte da tempo, ma il Volcanal è troppo in vista e non tutti erano convinti. E in effetti non entrò nel Volcanal quel giorno. Finita l’allocuzione alle reclute vicino alla Palus Caprina, è andato a pisciare nel Tevere, approfittando della nebbia. Chi doveva sapere, sapeva che quel giorno ci sarebbe stata nebbia già da tempo.
E quando si è chinato a bere gli abbiamo tenuto la testa sott’acqua”.
Numa scosse la testa, lentamente, con mestizia e comprensione.
“Il Tevere l’ha salvato, il Tevere l’ha ucciso…”
“Poi l’abbiam portato nel Lupercale…”
“E anche questo è stato indubbiamente corretto, consequenziale…” assentì Numa meditabondo.
“Poi l’abbiamo messo sotto sale. Però estraendo prima i visceri e messi in salamoia anche quelli dentro canopi… all’Egizia con vasi tusci purtroppo…”
Il grido di Numa rimbalzò fin sotto al tetto del portico e si abbassò via via come se stesse facendolo passare sotto al pergolato e nella notte ormai rischiarata solo dalle costellazioni.
“E questo no! Che facciate a pezzi Romolo ci può anche stare! Lo si sistema e il sale si scioglie, o lo si nasconde… o lo si esalta, dipende! Ma che mi abbiate seguito un rituale egizio, come lo sistemo io! I vasi canopi, Tusci o Greci che siano pazienza, fossero stati di Ficulae meglio ma…”
“Non si può conservare un corpo a breve o a medio termine solo coprendolo col sale! – protestò Ostio – C’è anche un egizio a Roma, sta per conto suo in una catapecchia quadrata ai piedi del Fagutal. L’abbiamo mandato a prendere. Borbottava le sue preghiere squartando Romolo e mettendo in salamoia le sue parti, chiedi a lui cosa diceva. E Fortuna ha voluto che passasse proprio in quei giorni un carro di salnitro per le fonderie Tirrene!
Non possiamo metterlo in un heroon così, subito, non vogliamo creare un Mito senza saper quale: l’abbiam fatto sparire, l’abbiam conservato, vogliamo solo sapere cosa farne e se sai cosa farne tu… Magari pure un Dio!”
“Intanto, sta sotto sale…” bofonchiò Numa, incredulo.
“Nel Lupercale…” confermò Ostio, abbacchiato.

La notte finì come in un sospiro di flauto poco dopo che ebbero infine ceduto al profondo sonno nelle larghe sedie sannitiche, più comode dei soliti rudi giacigli di contadino o di soldato, giacigli sempre identici da millenni e per millenni ancora una sedia comoda come quelle sarebbe stata nemmeno osabile ambire al di fuori di una casa di un Re.
E piuttosto che l’aurora li svegliò l’aspra voce della vecchia Priscilla, in tempo perché Numa potesse farsi portare il lituo e misurare il templum del giorno nel recinto dell’Ara di Quirino Maius.
Quindi presero insieme gli auspici e li interpretarono assieme all’alzarsi dell’alba.
Non era solo un eseguire riti arcani e ormai inintelleggibili, con la confidenza del non poter comunque saper cosa sarebbe successo il giorno stesso, ma comprenderne l’accaduto per imparare in futuro: era un sottinteso intendere la propria competenza e controllare la competenza altrui, che ormai, fra loro, era comunque consolidata.

“Puoi restare qualche giorno a ritemprarti. Quanto vuoi, se ti rimangono buone braccia, gambe e volontà per lavorar la campagna” disse Numa respirando a pieni polmoni l’aria ancora fresca del primo mattino, deposti i paramenti sacri di lino egizio che Ostio si guardò bene dal chiedere come fossero pervenuti lì.
Ostio scosse il capo.
“Questa missione in conto di Roma l’ho compiuta. Ora, tornando a Roma – che è lì che si compiono i giochi – ho un altro compito da svolgere. Ed è bene che lo cominci subito.”
“Da Senex di Roma?”
“Da Senex Se-nator di Roma.”
Fu il turno di Numa a scuotere il capo, ora.
“Si potrà dir tutto nell’Ade a proposito di Romolo, ma non che non sia riuscito a creare un immenso orgoglio in chi l’ha seguito. Sei pure tu uno dei famosi, o famigerati, trecento Celeres?”
Annuendo leggermente ma ripetutamente col mento tirato sotto la barba acetata, Ostio prese il sentiero principale che scendeva dalla città di Cures fino al passo sul Tevere del torrente che tutti chiamavano Curita, dove la Salaria passava su un ponticello ogni anno ricostruito, chiamato Pomponio da chi viveva lì da generazioni, indubbiamente gettato da un antenato dell’Inseguito dalla Fama…
“Ne sono stato il Tribuno. Lo ero quel giorno… quando inseguimmo i Veienti sotto le loro mura come quando lo uccisi. Era il mio turno.
Romolo mi ha indicato come Patericius che eravamo ancor fin troppo giovani, me ne ha fatte combinare fin troppe in guerra come in pace, e ora che Senex lo sono davvero lo devo dimostrare, di potermi far chiamare Senatore.”
Si fermò un istante rivolto al cosmo azzurro e verde della calotta che attorniava il serpeggiare del Tevere fra piane bozzose, isolotti boscosi, colli vulcanici e aspre montagne scandite dalle ombre fuggenti i raggi ancora obliqui del sole alle sue spalle.
“Eravamo la cavalleria in guerra, ci ha fatti diventare la sua guardia del corpo in pace… oh certo, senz’obbligo! Ma era implicito che quel che lui voleva si facesse, quel che lui pensava si eseguisse. E in pace ha trattato come per preparare a una Grande Guerra il suo popolo per quasi vent’anni, spargendo promesse che solo così, con una insostenibile grande guerra avrebbe potuto mantenere.”
“Siete un popolo nato da un fratricidio e creato con le guerre: il Fato è quello.”
“Il Fato dell’inizio sì. Fino alla strage e deportazione di Cameria. Fino alla guerra dei Septem Pagi. Ma l’ultima generazione si è formata senza vere guerre, e quindi senza vera disciplina di battaglia, Roma si gonfia di giovani che nascono e che arrivano ogni giorno, si arrangiano, si addestrano, ma senza guerre Roma scoppia. Magari fosse possibile sempre così, ma Romolo non preparava un’altra Era di Saturno aratore…”
“Almeno, gli avete fatto far la fine del Saturno precedente solo dopo morto…” non potè trattenersi Numa, consapevole di non saper nemmeno a quali Numi avrebbe dovuto chiedere espiazione per tale blasfemia.
“L’ho ucciso, l’abbiamo soppresso, perché stava preparando una guerra infinita che non avrebbe mai potuto concludere, né le generazioni successive, che come le precedenti avranno le loro, ma almeno non per sorte sua” sorrise Ostio senza raccogliere, cinicamente amaro come un’erba officinale infusa nel vino.
“Ma come vedi da solo son venuto, a piedi… e a piedi adesso me ne vado. I turni non funzionano, credimi… Senza Romolo a Roma sarà un delirio nelle prossime settimane e mesi, e ascolta quel che già sai: prima o poi arriverà una missione ufficiale con Proculo Julo in testa a offrirti lo scettro di Priamo e la mummia di Romolo. Accettali, per favore…”
“Ma lo scettro di Priamo non compete a nessuno, a Roma…” gli gridò dietro Numa.
“E tu accettalo lo stesso, per gloria dei Romani, assieme ai canopi con le palle di Romolo…” concluse Ostio, sparendo dietro a una roccia.


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