giovedì 1 gennaio 2015

L'armadio di Adamo


È il primo dell'anno.
E forse perché non è il migliore degli inizi, e forse perché qualche amico mi ha chiesto di fare una sorta di bilancio, e forse perché Uno (ve lo ricordate Uno?) non sta benissimo, e forse perché la trascrizione ce l'avevo da tanto tempo ma non l'avevo mai tirata fuori, e forse perché l'amicizia è cosa rara e le persone sono persone se da tali si comportano...
Si, insomma, per questi e altri motivi, ho deciso di ammorbarvi con questa Scritta/racconto di Uno, uno come tanti.



L'ARMADIO DI ADAMO



I

Oggi è un giorno nuovo
E come ogni nuovo giorno che si rispetti lì, in su, ed ancora più in alto, un sole illumina e riscalda. ma potrebbe anche non esserci. Potrebbe essere una di quelle giornate cupe, buie, o magari singhiozzanti: la pioggia potrebbe cadere a catinelle e riempire, o addirittura far traboccare i secchi posti dove gli pseudo tetti si lasciano infiltrare.

E allagare una casa, due case, tutte le case d'un paese ove tutto viene divorato dal tempo e dalla miseria. La mia meta? Quel paese.

E durante il nuovo giorno nè sole nè pioggia mi parlano, mi ascoltano; si denudano in silenzio come spogliarelliste altolocate.

Sono qui, seduto su un'incognita con gli occhi sbarrati in direzione dei vetri opachi del mezzo che mi ospita, con la speranza di riconoscere il passato, il mio presente che vado or ora ricordando.

Paesaggio:
le spighe nel campo e le mosche sulle spighe.
Una lotta continua per fiumi di gente con il capo coperto da grossi fazzoletti colorati dal sudore.
Pochi capelli e tante rughe. Pochi anni ed un'insaziabile voglia di vivere. Niente cipria  ma anni strozzati dal bisogno di possedere qualcosa, senza perdite di sangue.
Vecchi, bambini e donne gravide in campi di spighe popolati da mosche.
Poi correre ed affondare occhi e labbra in un unico grosso pentolone, insieme, quasi contemporaneamente. E ricominciare a scacciare mosche fino a sera quando, stanchi, non si desidera altro che un letto su cui poggiare le proprie membra; e ci si dimentica perfino del secondo pasto.

Ed eccolo lì il solito martellante sogno: la città.
Una cravatta di lana rossa e le scarpine leggere, quelle di vero cuoio.
Il vecchio un tempo l'ha vissuto; si sono distrutti a vicenda.
La donna ritaglia vecchie coperte e crea accenni di cravatte, con la speranza di conservare il suo uomo.

Il bimbo mangia abbondantemente e, cercando di accorciare il tempo, si rade in anticipo, inforca la prima sigaretta e possiede, con la fantasia, donne bellissime con la speranza di divenire al più presto adulto.
È ormai un uomo; giorni fa ha festeggiato il suo quattordicesimo compleanno: abbracci, baci, saluti e promesse. E via a inseguire l'illusione d'un futuro migliore

Ho le ossa tutte in disordine, mi stiracchio: prima una gamba, poi le braccia, un ultimo massaggio al mio povero collo quarantenne ed eccomi finalmente sceso da questo maledetto treno.
Sono in paese, vedo solo vecchi in attesa dell'ultimo respiro, donne contenute in ampissimi vestiti e bambini con un'età non superiore ai quattordici anni.
In albergo doccia calda poi, steso sul letto, mi accorgo di aver prurito ad un dito: una spiga bastarda si è infiltrata in me ed io, quasi impaurito, la sradico con il temperino, incurante del sangue che avrei potuto anche risparmiare.

La stanza puzza. Le pareti sono marce. Dormo comunque.


II

C'è l'ombra di un uomo in paese.
Ha un beccuccio di plastica bianca che gli protegge il volto ed i suoi lineamenti poco chiari sembrano perdersi nella nebbia grigiastra che avvolge il tempo. Odia gli uomini che ingenuamente inseguono una felicità irraggiungibile, che errando senza scopo, vivono di stenti e di dolori, d'illusioni e fittizie speranze e ancora di dolori: perché la vita stessa è dolore.
La morte è una liberazione ed egli non la augura a nessuno.
Constatato che il solo fatto di esistere comporta una certa dose di castigo meritato, non privare gli uomini di questa punizione è divenuto il suo unico motivo di vita.
Si prodiga affinché l'individuo conservi il più a lungo possibile il dono della sofferenza, lo aiuta a respirare per permettere alla vita di soffocarlo giorno dopo giorno.
L'ombra è la foto sbiadita di un uomo che odia se stesso, di conseguenza i suoi simili. Probabile che egli odi l'umanità che nella sua moltitudine non lo rende unico.

Ieri, appena sceso dal treno, il parroco, porgendomi la mano, mi ha accolto dicendo:
<<Benvenuto. Spero che il Signore la conservi a lungo in modo da poter godere della sua compagnia per molti molti anni.>>
Sapeva, come del resto l'intero paese, che mi sarei stabilito definitivamente qui, ove erano nati i miei genitori e i genitori dei miei genitori.
Forse perché la fortuna bacia una sola volta:
<<Ho un appuntamento a breve scadenza. Il laccio al collo è talmente stretto che mi resta ormai ben poco da soffrire>>
Il corvo ha annuito, ma probabilmente avrebbe volentieri sputato.
Gli ho stretto la mano e mi sono incamminato verso l'albergo.

Il paese era una grossa pupilla spalancata, io una gallina tutta d'oro.
È il giorno dopo quello nuovo, mi sciacquo gli occhi ed il volto, i capelli ed i denti.

Le grotte in paese sembrano case e le case caverne.
Sono un avvocato, un medico, un ingegnere, un astronauta, un giornalaio: sono qualcuno. Qui mi chiamano dottore.
Forse perché le mie scarpe sono lucide. Forse perché ho un paio di scarpe.
Il parroco, se non fosse parroco, anche lui verrebbe chiamato dottore: ha un paio di scarpe che non hanno niente da invidiare alle mie!

In città avevo tanti amici e tanti nemici. Il metro di misura in città sono i soldi; anche in paese.
In città non ero nessuno; qui sono dottore.
Ricordo che in città gli uomini si arrampicavano su giganteschi ed insormontabili specchi. Io ci ho provato, sono caduto, ci ho riprovato e sono ricaduto. Ora so che dietro a quegli specchi c'era un paese.
Ognuno è dottore, al suo posto.


III

C'è come un'impronta grigiastra nell'anta del vecchio armadio di famiglia.

Ha fatto la guerra e si è innamorato tre volte.
Mangiava bacche e beveva l'acqua del fiume.
È morto con il vangelo tra le mani, imprecando. Ora vive combattendo le termiti ed ascoltando i suoni dei frutti dei suoi tre amori.
Ride scricchiolando e piange zoppicando.
Ha le spalle larghe e i piedi piccoli, le mani tozza e tonde e la pelle rugosa.
Contiene un secolo di noia. La noia... il sonno dell'anima.

Mio nonno era un vecchio burbero pieno di tosse e di monete da una lira; le guadagnava e conservava spaccando la legna e spalando creta e acqua sulle proprietà del Conte.
Il nonno ed il Conte erano molto simili: il primo aveva sempre il volto sudato e le mani callose, il secondo era anemico.

Il nostro armadio era l'abete, vecchio compagno di infiniti silenzi e tormentati pensieri del nonno, che succhiava la terra su, in collina, durante le notti di tempesta.
Era ormai in fin di vita ed il nonno lo ha immortalato tramutandolo un armadio: sarebbero stati eternamente uniti. Ma il povero nonno non aveva considerato la propria morte.
Oggi l'armadio è solo ed è convinto d'essere Adamo, il nonno, il padrone di casa.

Sono qui, in questo inizio di mondo, uomo tra uomini, a continuare l'opera di Adamo, a costruire armadi con la speranza di sconfiggere la morte.

Il Conte aveva un figlio: un chiacchierone!



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